Moventi e destini dell’euro. Una nota su Luigi Spaventa

il manifesto, 8 gennaio 2013

di Emiliano Brancaccio

L’economista Luigi Spaventa è morto domenica, a Roma, all’età di 78 anni. Docente di economia politica alla Sapienza, fu deputato della sinistra indipendente negli anni Settanta, poi ministro del Bilancio del governo Ciampi, quindi presidente della Consob. Alle elezioni del 1994 gli toccò la sfida impossibile di fronteggiare Berlusconi nel collegio di Roma. La sconfitta, secca, rappresentò in un certo senso una prova generale per l’avvio di una nuova era della comunicazione politica: con Spaventa che provava a dire la sua sulla crisi del Sistema monetario europeo mentre Berlusconi gli rinfacciava di non aver mai vinto la coppa dei Campioni.

Di diverso rango furono le dispute alle quali Spaventa partecipò nel corso della sua vita di studioso. Durante gli anni Sessanta prese parte alla controversia sulle incoerenze della teoria neoclassica collocandosi sul fronte eretico degli sraffiani. Con essi condivise l’attacco alla tesi neoclassica secondo cui la distribuzione del reddito tra salari e profitti sarebbe il frutto di un equilibrio “naturale” del mercato,  determinato essenzialmente dalle libere scelte di consumo, risparmio e lavoro degli individui e dalla scarsità delle risorse produttive esistenti. Per gli sraffiani quella tesi era basata su una misura contraddittoria del capitale e risultava quindi logicamente insostenibile. Per questo andava sostituita da una teoria alternativa di ispirazione classica e marxiana, che vedeva la distribuzione del reddito come una risultante del quadro istituzionale e politico, e in ultima istanza dei rapporti di forza tra le classi sociali. Spaventa condivideva i termini di questa obiezione, ma la mera critica della teoria dominante non lo seduceva.

A suo avviso, per dare un solido futuro al programma di ricerca di Sraffa bisognava concentrare gli sforzi sulla sua parte costruttiva, senza troppe pregiudiziali verso la vecchia teoria. Per esempio, Spaventa riteneva che si potesse integrare l’analisi sraffiana con gli spezzoni a suo dire salvabili della visione ortodossa, come ad esempio la teoria delle aspettative. Questo programma spurio tuttavia non convinse. Tra gli sraffiani prevaleva l’idea che far dipendere una teoria economica da una ipotesi sulle aspettative era un po’ come tenerla su per i lacci delle scarpe. Spaventa prese atto, e anche per questo iniziò a distanziarsi.

L’allontanamento dagli antichi sodali fu ancor più accentuato nel campo della politica economica. Nel 1981, con Mario Monti ed altri, Spaventa caldeggiò la proposta di “desensibilizzazione” dei salari. L’idea consisteva nell’indicizzare le retribuzioni ai soli aumenti dei prezzi di origine nazionale: in caso di inflazione proveniente dall’estero, i salari non dovevano più essere protetti. In tal modo il potenziale inflazionistico della scala mobile sarebbe stato attenuato. Le obiezioni furono numerose: perché mai adottare un meccanismo che avrebbe salvaguardato i profitti e avrebbe scaricato sui soli lavoratori il peso degli aumenti del prezzo del petrolio? Per Monti ed altri veniva istintivo cercare di difendersi da questa critica arrampicandosi al vecchio albero neoclassico, e da lì replicare che i salari andavano frenati poiché avevano oltrepassato l’equilibrio “naturale”. Ma per Spaventa, che negli anni precedenti aveva contribuito a segare il tronco di quella pianta, si apriva una contraddizione fra le sue origini teoriche e le proposte politiche che intendeva sostenere.

Forse anche per risolvere tali incongruenze, negli anni Ottanta Spaventa approfondì sempre di più il solco che lo divideva dagli eretici, fino ad attribuire ad essi il poco lusinghiero appellativo di “riserva indiana”. In effetti fu tempestivo nel rilevare che il fronte della guerra delle idee economiche si era spostato altrove: con le sconfitte sindacali in Italia e in Europa, la Reaganomics negli Stati Uniti e la crisi sovietica, il tema delle determinanti di classe della distribuzione del reddito appariva ormai superato, dal corso degli eventi storici prima ancora che dalla evoluzione del dibattito teorico. A suo avviso, l’analisi delle aspettative restava invece attualissima. Per Spaventa, il problema principale posto dalla nuova epoca consisteva nell’individuare meccanismi istituzionali capaci di rendere stabili le aspettative degli investitori, in modo da garantire uno sviluppo ordinato dei mercati. Fu alla luce di questo convincimento che egli modificò le sue opinioni sul Sistema monetario europeo. Nel 1979, quando lo Sme fu istituito, Spaventa si collocava tra le file degli scettici: il regime dei cambi fissi avrebbe impedito all’Italia di svalutare, e in definitiva l’avrebbe danneggiata. In seguito, però, egli divenne un tenace sostenitore di quel vincolo. Anzi, a suo avviso bisognava rafforzarlo attraverso un accordo più stringente, che eliminasse ogni incertezza sulla irrevocabilità futura dei rapporti di cambio tra le valute. In altre parole, per stabilizzare le aspettative degli investitori bisognava chiarire che non si poteva più tornare indietro: bisognava andare oltre lo Sme e istituire una vera e propria moneta unica. La creazione dell’euro, eliminando qualsiasi rischio di future svalutazioni, avrebbe favorito gli afflussi di capitale estero verso l’Italia e gli altri paesi periferici dell’Unione. Grazie alla regolare crescita degli afflussi finanziari, queste economie avrebbero potuto investire e aumentare la produttività e sarebbero quindi state in grado di rimborsare i prestiti.

Spaventa non fu certo il solo a propugnare questa tesi: la narrazione di un euro capace in sé di risolvere anziché accentuare le contraddizioni europee è stata per anni prevalente. E’ pur vero che, prima della crisi, tra gli esponenti della teoria dominante qualche voce dissenziente si era levata, ma è soprattutto dalla “riserva indiana” degli eretici che sono scaturite le obiezioni principali. Una in particolare merita di essere ricordata: pensare di governare le divaricazioni strutturali e i relativi conflitti tra capitali europei tramite un mero un gioco di aspettative è stato, nella migliore delle ipotesi, illusorio. Col sopraggiungere della crisi, infatti, il tabù dell’inesorabilità dell’euro viene meno e i flussi finanziari dall’estero invertono la loro rotta. Le economie periferiche vengono così costrette a immolarsi sull’altare dell’austerity e della svendita del capitale nazionale, nel vano tentativo di ripagare i debiti. In quest’ottica alternativa l’euro si presenta dunque sotto una ben diversa luce, quale strumento egemonico dei forti contro i deboli nella feroce contesa tra capitali europei. L’importanza delle aspettative risulta quindi nuovamente ridimensionata. Mentre l’analisi dei rapporti di forza, in particolare dei rapporti di forza tra capitali nazionali, torna alla ribalta.

Nel 2011, prima che la malattia lo bloccasse, Spaventa onorò qualcuno dei “dieci piccoli indiani” fuoriusciti dalla “riserva” di un dialogo serrato sulla questione. Riconobbe che la verifica dei fatti dava sostegno all’interpretazione alternativa. Convenne che se la moneta unica è a rischio, lo è anche il mercato unico europeo.

 Emiliano Brancaccio

 

Questo articolo è apparso su il manifesto dell’8 gennaio 2013. La riproduzione è consentita citando la fonte.

Uno dei contributi più rilevanti di Luigi Spaventa al dibattito sulla teoria neoclassica è: Rate of profit, rate of growth and capital intensity in a simple production model (Oxford Economic Papers 1970). Riporto anche due suoi scritti, il primo dedicato alla evoluzione della ricerca in Italia e il secondo sul rapporto tra gli economisti e la crisi: Il gruppo CNR per lo studio dei problemi economici… (2004)  e Economists and Economics: what does the crisis tell us? (2009). Sulla “riserva indiana” e sui “dieci piccoli indiani”, un primo scambio con Spaventa risale a un seminario in Bocconi del maggio 2011.