Prove tecniche di ”statalismo liberista”

 

 

(estratto di un intervento al seminario di Riccione del 9 gennaio 2009, organizzato dall’area politica ”Essere comunisti”. Il testo completo sarà pubblicato sul prossimo numero della rivista ”Essere comunisti”).

 

 

1. Un comportamento razionale dal punto di vista del singolo capitale può risultare disastroso a livello di sistema. Durante una crisi ogni impresa cerca di ridurre al minimo i costi, e quindi abbatte i salari e licenzia. Per la singola azienda ciò naturalmente ha senso ma così facendo le imprese nel loro complesso deprimono la spesa dei lavoratori ed aggravano il crollo della domanda e dei ricavi. A lungo andare il sistema si avvita su sé stesso e può implodere. In teoria, persino uno stato definibile “borghese” dovrebbe tutelare i capitali da queste loro stesse dinamiche interne. Lo stato dovrebbe cioè agire secondo quella logica d’insieme che sfugge ai singoli capitali ma che guarda caso si rende indispensabile per garantire la loro continua riproduzione.

 

Invece, quel che vediamo oggi è che i singoli stati si muovono in modo più che mai simbiotico con gli interessi capitalistici che più o meno direttamente rappresentano. Ma così facendo tendono pure a replicare i caotici meccanismi interni al processo capitalistico. Dai sussidi a banche e imprese senza alcun coordinamento internazionale, all’insistenza sulla deflazione competitiva dei salari, questi esempi mostrano che le singole nazioni stanno riproducendo su larga scala i comportamenti scoordinati dei singoli capitali: esse infatti cercano di esportare la recessione fuori dai propri confini, ma questo provoca solo un aggravamento planetario della crisi. Naturalmente non è la prima volta che queste contraddizioni interne al rapporto tra stato e capitale si dispiegano. Oggi però la velocità alla quale si susseguono gli eventi rende molto più complicato porre rimedio agli errori già commessi. La morte del liberismo non è dunque necessariamente una garanzia di vita per il sistema.

 

2. Vorrei pure far notare che fino a questo momento il liberismo è stato messo sotto accusa per così dire solo dalla cintola in su. Da un lato, non sembra più tanto scandaloso che pezzi fondamentali del capitale finanziario e industriale stiano passando da mani private a mani pubbliche. Dall’altro lato, però, non c’è stato fino ad oggi il minimo ripensamento rispetto allo smantellamento dello stato sociale o alla totale soggezione alle leggi del mercato nella quale versa la gran parte dei lavoratori subordinati. Possiamo allora definirlo un liberismo asimmetrico, che al limite potrebbe condurci al paradosso di un capitale in buona parte sotto la protezione o la proprietà dello Stato ma di un quadro di tutele normative e contrattuali del lavoro che invece rimane in larga misura evanescente. Siamo insomma di fronte alla prospettiva di un nuovo regime, definibile di statalismo liberista? L’orizzonte suscita non poche inquietudini. Del resto, basta prestare un po’ di attenzione alle proposte che in Italia vengono spacciate in questi giorni come possibili interventi anti-crisi. Si parla di un rinnovato attacco alle pensioni dei lavoratori. Si propone il decentramento contrattuale a livello aziendale, cioè dove la contrattazione in molti casi non esiste. E a quanto pare si vorrebbe tentare un nuovo assalto all’articolo 18 dello Statuto, che tutela i lavoratori contro i licenziamenti ingiustificati. Questi esempi indicano che si cerca di affrontare la crisi di un mondo di bassi salari attraverso una ulteriore riduzione dei salari. Non suscita meraviglia che fino a questo momento la recessione non abbia fatto altro che accelerare.

 

3. Ma non è finita qui. Dopotutto siamo finiti a un passo dalla corsa agli sportelli, e nulla esclude la possibilità che sopraggiunga una super trappola della liquidità, vale a dire una situazione in cui nemmeno i titoli pubblici vengono considerati sufficientemente liquidi. A questo proposito consideriamo il rapporto tra la crisi economica, la eventuale crisi del bilancio statale e l’attacco al lavoro. Mi permetto a questo riguardo di raccontarvi una breve storia, una specie di novella esemplificativa. Immaginiamo il seguente ordine, impartito al telefono: “vendi a Novanta, bills Italia. Scoperti. A termine. Un milione”. Al momento sembra un messaggio cifrato, e in un certo senso lo è. Badate che noi non conosciamo il nome di colui che dà l’ordine, il segreto bancario non ci aiuta. Sappiamo però che la chiamata proviene dalle Bahamas, e che egli è uno di quelli che Tom Wolfe, nel Falò delle vanità, definiva “i padroni dell’universo”. Cioè si tratta di uno speculatore, di un grande operatore della finanza mondiale. L’operazione speculativa che il nostro uomo alle Bahamas sta realizzando con quella telefonata è una operazione ribassista. Il nostro uomo infatti scommette su una crisi di fiducia che colpisca i titoli italiani del debito pubblico, che spinga alla vendita in massa di quei titoli e che determini quindi una caduta del loro valore di mercato. Tramite un esempio numerico semplificato proverò a chiarire come funziona la sua scommessa. Il nostro uomo si fa prestare titoli pubblici italiani da una banca, titoli che alla scadenza darebbero 110 euro. Egli però non vuole attendere la scadenza, ed infatti vende immediatamente i titoli all’attuale prezzo di mercato, ad esempio 100 euro. Quindi attende speranzoso di avere azzeccato la scommessa, cioè attende che la crisi di fiducia si dispieghi, che tutti si mettano a vendere quei titoli e quindi che il prezzo dei titoli crolli, per esempio a 90 euro. A questo punto il nostro uomo ricompra i titoli e li restituisce alla banca, e per esempio pagherà alla banca un interesse di 2 euro per ogni titolo ricevuto in prestito. Ebbene, se fate due semplici conti, scoprirete che il nostro uomo alle Bahamas ha venduto a 100, ha ricomprato a 90, ha pagato un interesse di 2 alla banca, e quindi ha guadagnato 8 euro netti per ogni titolo. Il volume di scambi complessivo è stato di 1 milione di titoli. Il guadagno per il nostro uomo alle Bahamas è stato di 8 milioni di euro. Quello della banca che lo ha spalleggiato di 2 milioni. L’intera operazione, badate bene, si può aprire e si può chiudere in sette minuti sette.

 

4. E’ lecito ritenere che il nostro uomo alle Bahamas passerà una bella serata tra i festeggiamenti. Il punto però è che questa operazione ha provocato una crisi del bilancio pubblico. Perché vedete, l’operazione a termine dello speculatore, effettuata in concerto con molti altri suoi simili, ha generato un grande aumento dei tassi d’interesse pagati dallo Stato sui titoli pubblici emessi. Spieghiamo. Abbiamo detto che il titolo garantiva al compratore un valore di 110 euro alla scadenza. Prima del crollo del suo valore quel titolo poteva essere comprato sul mercato a 100 euro. Dunque il titolo lo si comprava a 100 e alla scadenza dava 110 euro. E’ chiaro che il suo rendimento, il suo reddito da interesse era quindi di 10 euro. Ma dopo la telefonata del nostro uomo alle Bahamas, cioè dopo la crisi di fiducia, dopo le vendite in massa dei titoli e quindi una volta avvenuto il crollo del prezzo del titolo, ebbene a quel punto tutto è cambiato. Infatti adesso che il prezzo di mercato è caduto succede che lo stato riesce a piazzare titoli pubblici solo a 90 euro. Questi titoli però devono sempre dare 110 euro alla scadenza. Dunque il rendimento, il reddito da interesse, è schizzato in alto, a 20 euro. Lo stato si ritrova pertanto a spendere molto più di prima per pagare gli interessi ai possessori dei titoli del debito pubblico. Dunque la spesa pubblica per il pagamento degli interessi aumenta, e il governo cosa decide di fare per coprirla? Potrebbe decidere magari di aumentare le tasse sui grandi patrimoni, o potrebbe magari introdurre dei vincoli e dei divieti alla speculazione finanziaria. Certo, potrebbe. Ma non lo fa. Il governo decide invece di sfruttare la crisi per giustificare altri tagli alla scuola, all’università, e poi magari alla sanità, all’assistenza, alla previdenza, ai servizi pubblici locali, e così via. Insomma, la crisi quale volano per una nuova stagione di privatizzazioni.

 

5. Naturalmente la mia è solo una novella. La minaccia descritta non si è ancora presentata al nostro cospetto. Ma badate, questa non è fanta-economia. In Italia una circostanza simile si è già verificata in passato, nel 1992. Ricorderete che all’epoca venne privatizzata l’industria pubblica, con risultati che oggi sappiamo essere stati nella maggioranza dei casi disastrosi. Questa volta però è lecito supporre che l’attacco sarebbe ancora più insidioso, poiché ci troveremmo di fronte a un affondo contro i servizi pubblici fondamentali e quindi contro i fondamentali diritti sociali. Potremmo definirlo un vero e proprio attacco al cuore dello stato sociale. E il paradosso è che questo attacco può verificarsi nello stesso momento in cui interi spezzoni di capitale finanziario e industriale finiscono in mano pubblica. Statalismo liberista, per l’appunto. Si tratta di una eventualità remota? Difficile a dirsi. A tale riguardo è vero che per il momento i titoli pubblici vanno a ruba, cioè non vengono ceduti ma al contrario risultano fortemente richiesti. Però non trascuriamo una cosa: la richiesta di obbligazioni statali è aumentata ma in modo alquanto differenziato tra paese e paese, il che spiega pure l’aumento dei differenziali sui tassi d’interesse dei vari paesi europei. Inoltre non dimentichiamo che il mercato finanziario non è necessariamente concorrenziale. Quel mercato può assumere tratti oligopolistici, con dei “pastori” che fanno i prezzi e che guidano i “greggi”. A titolo di esempio prendiamo una definizione recente, che ci viene data dal Financial Times, vale a dire dal più importante quotidiano finanziario del mondo. Sapete il Financial Times come ha definito il Portogallo, l’Italia, la Grecia e la Spagna? Li ha definiti con un acronimo: P.I.G.S., vale a dire porci, maiali. Per il FT noi europei del Sud siamo maiali, e quindi non siamo degni della fiducia della cosiddetta comunità finanziaria: le nostre promesse di pagamento sono da vendere, da buttare. In effetti è difficile immaginare un più autorevole e feroce via libera per un eventuale attacco speculativo contro i titoli pubblici dell’Italia e degli altri paesi periferici d’Europa. Se un attacco del genere ci cogliesse impreparati, potremmo anche dire addio agli ultimi scampoli di tutele del lavoro ereditati dal Novecento.

 

6. Si impone a questo punto un interrogativo: il silenzio del lavoro, e la conseguente latitanza del conflitto sociale, sono in questa fase storica da ritenersi dati strutturali inevitabili? Una risposta affermativa è indubbiamente la più scontata. Tuttavia vorrei invitarvi al seguente esperimento mentale. Supponiamo che negli ultimi anni si fosse lavorato intensamente per ricompattare l’organizzazione di classe, a livello sia sindacale che politico, in base alla certezza che nel 2008 sarebbe esplosa la crisi che effettivamente è oggi sotto i nostri occhi. Ebbene, in una ipotetica circostanza del genere, è facile ritenere che ci saremmo approssimati alla crisi potendo contare su rapporti di forza ben più favorevoli al lavoro di quelli odierni. Naturalmente questo è solo un gioco: la storia infatti non può esser costruita col senno di poi, né tantomeno si può avere certezza degli specifici momenti in cui essa si scuote e svolta. Questo gioco mentale tuttavia è molto serio. In passato infatti troppe energie si sono perdute tra gli eredi del movimento operaio nel discettare di questioni anche importanti ma mai cruciali, ed è soprattutto venuta a mancare la consapevolezza che la potenza del sistema fa sempre il paio con la sua estrema fragilità. Quella consapevolezza perduta è costata carissima. Adesso però sarebbe bene prepararsi al futuro con maggiore cognizione di causa. Per citare un esempio tra i molti che potremmo fare al riguardo: se si ritiene non del tutto peregrina l’ipotesi di un possibile attacco ai titoli pubblici italiani, forse sarebbe opportuno prepararsi per fronteggiare una simile eventualità, sforzandosi maggiormente di tenere assieme le armi della critica teorica e della mobilitazione sociale.

 

7. Permettetemi un ultimo accenno sul nesso fra la teoria e la prassi politica. Le ultime stime ci dicono che siamo di fronte alla più grave crisi economica mondiale dai tempi del dopoguerra. Soltanto in Italia, entro la fine del 2009 potremmo trovarci con un milione di disoccupati in più e vi è chi sostiene che tali previsioni molto facilmente peggioreranno. Siamo insomma alle prese con un terremoto economico epocale, che verrà a lungo ricordato nei libri di storia. Ebbene, volgendo lo sguardo al passato ci si rende conto che il verificarsi di eventi economici di così vasta portata ha sempre coinciso con notevoli sommovimenti nei flussi di consenso politico. In una simile congiuntura storica si pone evidentemente il problema di prevedere e magari di orientare gli spostamenti di grandi masse di individui sociali allo sbando. A questo riguardo, io credo che il destino del concetto di classe risulterà fondamentale. Ci sono infatti motivi per ritenere che l’attuale congiuntura storica possa dare luogo a uno solo dei seguenti due opposti esiti: o a un rilancio della coesione di classe tra i lavoratori subordinati, oppure a una definitiva frantumazione interna alla classe lavoratrice. A mio avviso il bivio di fronte al quale ci troviamo è senza appello, ed è imminente. Presto cioè verificheremo se al concetto di classe spetti in futuro un ruolo cruciale nella riorganizzazione politica delle masse, oppure se esso sia destinato a finire nel dimenticatoio dei vecchi strumenti retorici, privi di qualsiasi presa sul reale, retaggi di un passato fatto di miti e di superstizioni. [….]