Potenza e fragilità del modello di sviluppo turco

Il Nuovo Levantino, 14 aprile 2014

Intervista all’economista Emiliano Brancaccio, in occasione della sua visita alla Izmir University.

Esiste un futuro per la Turchia all’interno dell’Eurozona?

Emiliano Brancaccio: La Turchia ha reagito alla cosidetta “Grande Recessione” molto meglio di quanto abbiano fatto l’Italia e gli altri paesi “periferici” dell’Unione Monetaria Europea. L’Italia e gli altri paesi periferici dell’Unione Monetaria Europea hanno patito la crisi in misura estremamente pesante. Basti pensare che tra il 2008 e il 2013 Italia, Irlanda, Grecia, Portogallo e Spagna hanno perso circa 6 milioni e 200 mila posti di lavoro. Questo non è avvenuto in Turchia, dove la recessione si è sentita nel primo anno, ma a causa di una diversa situazione macroeconomica il paese è riuscito a reagire e oggi segna una crescita del Pil in sei anni di oltre il venti percento. Dunque, quella che è stata una recessione molto pesante nel sud Europa, in Turchia è stata avvertita in misura molto limitata. Questo ci fa pensare, evidentemente, che oggigiorno alla Turchia non è detto che convenga accelerare il processo di integrazione nell’Unione Europea, tantomeno nella Unione monetaria. Uno dei motivi per cui la Turchia è riuscita a uscire dalla crisi più rapidamente sta proprio nel fatto che questo paese dispone di leve di politica economica che oggi sono precluse, per esempio, all’Italia. Basti pensare che la Turchia può adottare forme più o meno stringenti di controllo dei movimenti del capitale, cosa che evidentemente l’Italia, restando all’interno dell’Unione Europea, non può fare.

In questi anni in effetti la Turchia ha fatto registrare un notevole sviluppo, soprattutto rispetto al Sud Europa. Ma si tratta di una crescita sostenibile?

L’economia turca presenta un elemento di fragilità molto rilevante che, per certi versi, la fa molto somigliare ai paesi periferici dell’Eurozona. La Turchia, infatti, tende sistematicamente ad importare più merci di quante ne esporti. Questo implica una forte crescita dell’indebitamento di questo paese. La Turchia ha chiuso il 2013 con un deficit verso l’estero di quasi l’otto percento del Prodotto interno lordo. Il dato indica che questo paese dipende troppo dai flussi di capitale provenienti dall’estero. Bisognerebbe creare le condizioni affinché la Turchia possa rientrare da questo boom di indebitamento verso l’estero. Altrimenti rischia di incappare in una crisi valutaria anche più pesante di quelle che si già si sono verificate in questo paese nel 1994, nel 2001 e anche recentemente. Si tratta di una operazione complessa, che richiede diversi strumenti di policy, tra cui i controlli sui movimenti di capitale. Ricordo che la Turchia può adottarli perchè non si trova nell’Unione Europea.

Se andasse avanti di questo passo, senza interventi correttivi, la Turchia dove finirebbe?

Prima o poi si verificherebbe una crisi valutaria, con una fuga di capitali all’estero. Quando si dipende troppo dai capitali esteri si presenta un problema. Così come questi capitali arrivano facilmente, così fuggono via altrettanto facilmente. In tal caso si verificherebbe una caduta del tasso di cambio molto più accentuata di quello che si determinerebbe se la fase di transizione, di uscita dall’indebitamento estero, venisse gestita dalla politica economica, intervenendo anche con controlli su movimenti di capitale. Possiamo dire, nella sostanza, che la Turchia si trova nel mezzo di una bolla speculativa. Che può sgonfiarsi o può scoppiare. Meglio che si sgonfi, meglio che venga governata.

        

Intervista pubblicata su Il Nuovo Levantino. La riproduzione è consentita citando la fonte.