IL FALLIMENTO DEL JOBS ACT

Matteo Renzi esulta per il dato Istat di gennaio sul calo della disoccupazione e attribuisce il risultato ai nuovi contratti di lavoro introdotti con il Jobs Act. Ma tra l’uno e l’altro non c’è alcun nesso comprovato. Basti notare che nel 2015 abbiamo registrato una modesta ripresa occupazionale in Europa: l’Italia non ha fatto altro che seguire la tendenza, tra l’altro con estremo affanno, posizionandosi sotto la media dei paesi membri dell’Unione e dell’eurozona (dati Eurostat). Del resto, dai primi studi dell’OCSE risalenti agli anni ’90 fino alle analisi empiriche più recenti, gli economisti sanno che non esiste una correlazione statisticamente significativa tra flessibilità dei contratti di lavoro e disoccupazione. I contratti flessibili possono al limite indurre un imprenditore a creare posti di lavoro in fasi di ripresa, ma quegli stessi contratti gli consentono poi di distruggere quegli stessi posti di lavoro al primo accenno di crisi: il risultato netto, tra creazione e distruzione di posti di lavoro, è zero. Né si può dire che gli sgravi contributivi introdotti dal governo abbiano dato risultati molto migliori. Ammesso che le decontribuzioni possano aver determinato un temporaneo incentivo ad assumere a tempo “indeterminato”, il risultato da marzo a novembre 2015 è un aumento di appena 37.000 contratti cosiddetti “a tutele crescenti”, a fronte di ben due miliardi di sgravi complessivi (dati Istat). Una intervista di Nello Trocchia all’economista Emiliano Brancaccio.