Brancaccio: “L’effetto propulsivo del Jobs Act è un mito”

Rassegna Sindacale, 22 marzo 2017

L’economista: “L’abolizione dei voucher e il ripristino della responsabilità in solido degli appaltanti sono interventi in cointrotendenza ma parziali, che non rimediano al grosso dei danni provocati dalle riforme del lavoro di questi anni”

Intervista di Guido Iocca

I voucher saranno cancellati e la responsabilità solidale dei committenti di appalti sarà ripristinata: sull’onda dei referendum indetti dalla Cgil il governo interviene sulla legislazione del lavoro eliminando pezzi rilevanti del Jobs Act. Di questa importante novità discutiamo con Emiliano Brancaccio, 45 anni, docente di Politica economica e di Economia internazionale presso l’Università del Sannio, promotore sul Financial Times del “monito degli economisti” contro le ricette dell’austerity e autore di vari saggi critici nei confronti delle politiche di deregolamentazione del lavoro e di deflazione salariale attuate in questi anni in Italia e nel resto d’Europa.

Professor Brancaccio,  la notizia di questi giorni è che il governo Gentiloni farà un passo indietro rispetto al ““Jobs Act” di Renzi: cancellerà le norme sui voucher e renderà di nuovo i committenti responsabili degli appalti. Possiamo parlare di una svolta nella disciplina del lavoro?

Dall’approvazione del “pacchetto Treu” al “Jobs Act”, passando per la “legge Biagi” e la “riforma Fornero”, abbiamo assistito nel nostro paese a una caduta verticale degli indici di protezione del lavoro calcolati dall’OCSE, seconda in Europa soltanto al crollo che si è registrato in Grecia. La conseguenza è che le tutele dei lavoratori italiani si situano oggi al di sotto di quelle vigenti in Germania e in vari altri paesi europei. L’abolizione dei voucher e il ripristino della responsabilità in solido degli appaltanti sono interventi parziali, che purtroppo non rimediano al grosso dei danni provocati dalle riforme del lavoro di questi anni. Tuttavia, queste novità rappresentano effettivamente un dato positivo in controtendenza, il primo che si registra dal lontano 1990.

I fautori della flessibilità del lavoro contestano la decisione del governo. L’ex ministro del lavoro Sacconi afferma che senza i voucher verrà a mancare un importante argine alla diffusione del lavoro nero.

Sacconi azzarda una relazione causale molto in voga tra i liberisti del lavoro, ma che in realtà è tutta da dimostrare. Varie ricerche empiriche in materia riportano evidenze che addirittura la contraddicono: uno studio della World Bank sull’Europa segnala che la quota di lavoro irregolare sul totale degli occupati è più bassa lì dove gli indici di protezione del lavoro e il cuneo fiscale sono più alti.

Altri commentatori sostengono che l’abolizione dei voucher e il ripristino della responsabilità dei committenti freneranno l’effetto propulsivo del Jobs Act: a loro avviso si rischia un nuovo irrigidimento del mercato del lavoro che bloccherà la crescita dell’occupazione…

L’effetto propulsivo del Jobs Act è un mito che non trova riscontro nei dati. Chi si limita a notare che dopo l’approvazione del Jobs Act l’occupazione in Italia è aumentata e da ciò conclude che esiste un legame di causa ed effetto tra i due fatti, dal punto di vista scientifico si colloca allo stesso livello di quegli stregoni che attribuivano un improvviso temporale alle loro danze propiziatorie. Eppure, per capire che le cose stanno diversamente baserebbe fare un po’ di analisi comparata tra paesi: dall’entrata in vigore della riforma del lavoro, l’aumento degli occupati in Italia è stato inferiore alla crescita media dell’occupazione che si è registrata in Europa, anche in paesi che nel periodo in questione non hanno attuato alcuna deregolamentazione del mercato del lavoro. Questa banale evidenza non deve sorprenderci: vent’anni di ricerca scientifica in materia hanno chiarito che non sussistono relazioni statistiche significative tra flessibilità del lavoro e occupazione. L’assenza di chiare evidenze empiriche sull’efficacia delle riforme del lavoro è ormai un dato riconosciuto persino in alcuni studi di quelle istituzioni che hanno più insistentemente spinto verso la precarizzazione, dall’FMI all’OCSE.

Lei ha riportato questo dato anche in un articolo recentemente pubblicato su Econopoly del Sole 24 Ore. Quell’articolo è stato però criticato da un economista dell’OCSE, Thomas Manfredi, il quale ha sostenuto che lei suggerirebbe «un’interpretazione non corrispondente all’analisi corrente e passata» della istituzione di cui egli fa parte.

La critica è sempre benvenuta ma per esser costruttiva dovrebbe attenersi ai fatti. La nostra non era un’interpretazione, era una citazione. In quell’articolo io e i miei coautori riportavamo il seguente passo, tratto dall’Employment Outlook 2016 dell’OCSE: «La maggior parte degli studi empirici che analizzano gli effetti a medio-lungo termine delle riforme di flessibilizzazione del lavoro, suggeriscono che esse hanno un impatto nullo o limitato sui livelli di occupazione nel lungo periodo». Si tratta di un’ammissione interessante che rivela alcune incongruenze persino all’interno dell’OCSE, tra chi elabora le ricette politiche liberiste tuttora promosse da quella istituzione e chi realizza gli studi che in linea di principio dovrebbero giustificarle. Chi ci critica non ha fornito nessuna spiegazione di quel passo, preferendo attardarsi su una descrizione alquanto scontata di alcuni elementi basici di teoria mainstream del mercato del lavoro. Mi ha ricordato un po’ quei frati domenicani del diciassettesimo secolo che invocavano le Sacre Scritture nel disperato tentativo di ribattere alle prove empiriche di Galileo sulla rotazione della terra intorno al sole. Dopo un ventennio di evidenze contrastanti e il più delle volte addirittura contrarie, chi si ostina ad affermare senza indugio che la flessibilità dei contratti crea occupazione si cimenta in un pigro atto di fede, che di certo non aiuta il progresso scientifico in materia.

Alla luce di queste evidenze, potremmo affermare che la dottrina delle deregolamentazioni del lavoro sia ormai sulla via del tramonto?

Dal punto di vista della ricerca scientifica quella dottrina è oggi sottoposta a obiezioni documentate e difficilmente aggirabili. Ma saremmo vittime del più ingenuo idealismo se ritenessimo che una tangibile svolta politica possa essere ottenuta semplicemente provando l’esistenza di uno scarto tra gli obiettivi annunciati di certe ricette e i risultati effettivi che hanno conseguito. La battaglia scientifica conta, ma solo fino a un certo punto. Poi è questione di rapporti di forza tra le classi sociali, e di organizzazione politica degli interessi di chi lavora.